Spaesamento e delicato equilibrio nella poesia di Antonio Aliberti
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- 4 ago 2020
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VENTESIMO ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI ANTONIO ALIBERTI
Antonio Aliberti, nato a Barcellona Pozzo di Gotto il 15 dicembre 1938, emigrato in Argentina, fu poeta, critico letterario, traduttore, animatore culturale. Poco noto nella città natale, egli è morto nel 2000 al suo rientro in Argentina, dopo aver ricevuto a Sanremo il Premio “Montale”.

La storia personale di Antonio Aliberti (per gli amici Nino) è simile a quella di molti emigranti, che lasciarono l’Italia per sfuggire alla situazione di povertà, che era stata aggravata dal secondo conflitto mondiale, le cui conseguenze nel meridione d’Italia si protrassero ben oltre la fine della guerra. Aliberti aveva 13 anni nel novembre 1951, quando lasciò il quartiere Marsalini di Barcellona e raggiunse l’Argentina insieme alla famiglia, sperimentando sulla sua pelle la condizione di esilio e di secolare relegazione, provata da una parte consistente del popolo siciliano.
Il critico letterario argentino Augustìn Gribodo (in un saggio intitolato El llanto de Aquiles (Il pianto di Achille), Aproximaction a la poetica de Antonio Aliberti) ha affermato che “… nella sua persona fu vivo lo spaesamento, causato dalla sofferenza per l’allontanamento dalla sua terra, dalla sua comunità e dalla sua storia”. Nella sua poesia egli ha elaborato “la tragica fatalità di quella separazione, che fu definitiva e contundente nell’anima dell’adolescente”. L’intera opera artistica dell’uomo Aliberti ha risentito – direttamente o indirettamente – di questo strappo, al quale egli reagì con atteggiamento stoico, misto a distaccata ironia verso se stesso e verso l’esistenza umana.
In un saggio intitolato “Historia, sociedad y caracter de la poesia siciliana contemporanea” Aliberti ha scritto che - tra i connotati delle culture che i siciliani hanno ereditato dai vari popoli che hanno colonizzato o conquistato l’isola – egli dentro di sé ha sentito pulsare l’anima greca, quasi incarnatasi nella sua persona, sin da quando prese consapevolezza che il cognome della nonna paterna “Schepis” è chiaramente di origine greca. E non è un caso che nella sua opera poetica sono disseminati vari riferimenti ai miti e alla cultura greca. Come nell’antica Grecia la peggiore punizione che si poteva infliggere ad un cittadino della polis era l’ostracismo (la cacciata dalla propria città), così l’inguaribile ferita dell’esilio fece sentire Aliberti un apolide per molti anni (solo nel 1984 si naturalizzò argentino). Egli sentì profondamente la nostalgia della terra natale e la elaborò nella sua poesia (attraverso oggetti quotidiani o elementi connotativi, come il mare o l’infanzia). Ma fu un sentimento per nulla lamentevole. Anzi egli accettò con dignità la precarietà del vivere in balia dei capricci degli uomini e del destino, che spesso suscitano lo stimolo alla rivolta, oppure spingono l’uomo debole a isolarsi dalla società.
Superate le difficoltà dell’inserimento nella società argentina, Aliberti si circondò di amici e divenne un sodale e attivo animatore culturale, dopo avere trasformato il salone da barba del padre in un salotto letterario. Collaborò con varie riviste letterarie e iniziò a pubblicare sue poesie a partire dal 1972, senza tuttavia aderire a correnti letterarie, né alla cosiddetta avanguardia. Ha seguito attentamente le vicende della letteratura argentina, italiana e mondiale e nel corso degli ultimi decenni del novecento ha contribuito a far conoscere in Argentina molti autori italiani, da lui stesso tradotti, tra cui Bartolo Cattafi, poeta molto apprezzato da Aliberti. Il figlio Diego ricorda che il padre, parlandogli di Barcellona, gli diceva che la casa dove egli era nato si trovava di fronte alla casa natale di Bartolo Cattafi in via Gerone. Aliberti ha dedicato alla città natale la poesia Vento a Barcellona, che fa parte della raccolta Nessun maggior dolor e che è stata recentemente ripubblicata nell’antologia italoargentina “Le eolie, le azzurre parole” a coronamento dello scambio culturale tra Chivilcoy e Barcellona Pozzo di Gotto: Guardava il vento / anche il vento aveva i suoi colori: / era grigio, a volte bianco / e diventava d’argento / nella fronte dei contadini. / (La terra è bassa, bassa, Signore / e la sua schiena sembra un ferro storto). / Ma il vento in Barcellona / mi sussurrava miele tra le vene; / mi dicevo: “Alzati Nino / e canta canta canta un’altra volta.” / E a questa altezza da lontano / il dolce canto si disperde: / già la mia voce non emana fili di oro..
Sul piano sociale Aliberti ha sempre preso le distanze dal conformismo. Anzi fu un ammiratore di Robert Arlt, personaggio anticonformista per eccellenza del primo novecento argentino, al quale fu intitolato un Gruppo letterario, di cui Aliberti fu cofondatore e poi direttore.
Temi della sua poesia sono la fugacità del tempo, la dissonanza tra la realtà e l’apparenza, la soledad, l’amore impossibile e indispensabile, Il destino. Si tratta di temi universali, ma che sono intimamente legati alla unicità irripetibile del destino individuale e al sentimento della incomunicabilità in un mondo sospeso tra ordine e caos, che il poeta Aliberti osserva con sguardo disincantato.
La critica ha evidenziato che l’originalità della sua poetica (un realismo sintetico e allegorico) risiede nella capacità di introdurre nell’essenza tragica del vivere quotidiano il sentimento del contrario (di matrice pirandelliana), accompagnato da una ironia a volte caustica. Egli ha dato vita ad una sorta di epica dell’uomo comune, senza farsi coinvolgere nel nichilismo, che – in forme morbide o tragiche – ha contraddistinto il postmoderno degli ultimi decenni del novecento. Si è collegato, invece, con le voci poetiche più rappresentative della cultura ispano americana (da Neruda a Borges) e di quella italiana da Pavese a Montale, a Bartolo Cattafi.
Come ha scritto Albert Luis Ponzo, Antonio Aliberti, pur essendo un uomo impegnato nel sociale, non è stato un poeta in trincea. Non ha fatto della denuncia lo strumento del suo impegno. Tuttavia con occhio vigile e con un linguaggio equilibrato (tra aulico e quotidiano) ha testimoniato - da attento scrutatore di se stesso e della società – le contraddizioni e il malessere dell’esistenza. Lo ha fatto con tono fatidico: la sua poetica, senza ricorrere a forme altisonanti, ha attraversato la fatalità di ogni destino umano, riprendendo allegoricamente vari miti greci, tra cui il mito omerico di Achille, la cui presunta invulnerabilità da Aliberti è vista come una maschera, che nasconde la sua fragile condizione di comune mortale. Infatti la volontà della madre Teti non è stata sufficiente a conferire al figlio l’immortalità. Dunque Il tallone non bagnato nelle acque dello Stige è il riflesso della debolezza dell’eroe, che si fa vincere dall’ira funesta ed è costretto a misurarsi con i colpi di coda della sorte. Il poeta afferma che egli prova le stesse limitazioni di fronte al destino, pur non essendo un eroe dell’Iliade. Il pianto di Achille interiorizzato da Aliberti è consapevolezza lucida di essere legato ad una condizione ambivalente e complessa, ad un destino incomprensibile e irrinunciabile, comune a tutti, che ci costringe ad accettare sia i nostri limiti, sia la marea del subconscio che agita le nostre coscienze.
Aliberti si è servito dell’ironia come valvola di scarico dal tragico, con l’obiettivo di non cadere nel patetico e di raggiungere un delicato equilibrio, che è il titolo della raccolta di versi pubblicata nel 1991 e che è da intendersi anche come definizione della sua poetica, oltre che come equilibrio psichico, delicato perché continuamente messo a dura prova.
Soffermandosi sul linguaggio poetico di Aliberti, il critico Luis Benitez ne ha evidenziato la plurivocità ed ha affermato che egli – dietro alle occasioni e agli oggetti quotidiani – ha alluso a situazioni e concetti molto più ampi, per esprimere la trama segreta, che richiama l’inquietudine dell’uomo di oggi, il vuoto del tempo, l’impotenza di fronte alla perdita delle proprie radici, l’abissale desolazione della maturità. Benitez ha precisato che la poesia di Aliberti è stata apprezzata dalla critica, oltre che dai lettori, per la coerenza formale e il sapiente dosaggio tra l’unità e la diversità polisemica dei linguaggi proposti. Tali qualità gli hanno assicurato nella letteratura argentina della fine del secolo scorso un posto di rilievo, che gli è stato attestato da numerosi riconoscimenti e premi.
La raccolta poetica che – tra le altre - ha ottenuto massimi consensi è intitolata Todos recordaron a Casandra (1987), che ha ottenuto il Premio Piuma d’argento e il Premio per il 20° Anniversario della Fondazione argentina per la poesia. In esergo il libro reca il motto del maestro di haiku Matsuo Basho: “Non percorro la strada degli antichi / cerco ciò che essi cercarono”. Questa frase racchiude il senso rivelatore della volontà di opporsi alla perdita della dignità dei valori e alla relativizzazione dell’etica. Si tratta dunque di un libro critico e autocritico, che si concentra soprattutto nei confronti di un mondo che persiste nei suoi errori. In particolare il mondo degli intellettuali è criticato da Aliberti per la condotta passiva di fronte alla società che va perdendo i valori essenziali - in Argentina erano gli anni della dittatura dei colonnelli. E Aliberti ricorda che solo dopo la caduta di Troia tutti i troiani ricordarono la profezia inascoltata di Cassandra.
Il mito di Cassandra è metafora della caduta dei sogni, rappresentata, ad esempio, nella poesia Idolos de barro (Idoli di fango): De pronto un dia se nos caen los idolos / - no es que se adoren imagines de santos - / (uno no es tan inocente, sabe que se trata / de carne humana, de carne en paulatino deterioro / de almas expuestas a los embates del viento / cuando no a la lucha cotidiana con todo lo que ello implica: / perdida de la ternura, odios / suenos asesinados en cada coletazo de la suerte) / y vaya si los dias esconden colezatos / en cada una de sus sangrantes grietas ..
“All’improvviso un giorno cadono i nostri idoli / - non è che si adorino immagini di santi - / (non siamo così innocenti, sappiamo che si tratta / di carne umana, di carne in costante deterioramento / di anime esposte all’impeto del vento / o alla lotta quotidiana con tutto ciò che implica: / perdita della tenerezza, odio / sogni assassinati da ogni colpo di coda della sorte) / e certo i giorni nascondono colpi di coda / in ognuna delle crepe sanguinanti …” (traduzione di Leticia Baldo Harasiwka).
Gino Trapani
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