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"Le calde stagioni" di Melo Freni

Le calde stagioni, primo romanzo di Melo Freni (1975), finalista al Premio Viareggio, è un libro inchiesta e insieme un’opera aperta, per la struttura episodica, i cui momenti tuttavia si legano insieme, rivelandoci un quadro complesso della società siciliana, metafora di una condizione umana generale. Il protagonista, giornalista di origine siciliana che vive a Roma, racconta in prima persona un suo ritorno nell’isola; vuole rivedere certi luoghi con occhi nuovi, proprio nei giorni delle più crude violenze a Palermo: mercati, giardini, cantieri … una pozza di sangue.

II giornalista protagonista del romanzo rievoca le sue calde stagioni giovanili e le propone come alternativa ad una condizione esistenziale sofferta, dolente perché si dipana sotto un sole splendido che investe di sé tutto il paesaggio, che, come gioia immensa, lontana e struggente, ci sovrasta e non si può condividere.

Il filo conduttore del racconto è quasi un pretesto per tracciare un ritratto della Sicilia: la rivisitazione dell’isola mescola situazioni odierne con fatti storici pregressi, annotazioni psicologiche e situazioni ambientali. Accanto agli aspetti dolci (gli amori con Rosaria e con Federica) l’autore coglie il senso funebre di certi momenti della vita siciliana. Con occhio disincantato ripercorre le città, luoghi che ricordano “Le città del mondo” di Elio Vittorini. Non mancano richiami al mondo letterario di Sciascia e di Tomasi di Lampedusa. Ad esempio nel colloquio tra il magistrato Antonio Sanginisi e il commissario di polizia di origini piemontesi Gianpiero Gobetti (eco del colloquio del Gattopardo tra il principe di Salina e il savoiardo Chevalley) viene ribadito che tutti i sommovimenti in Sicilia sono sfumati alle otto di sera e ogni cambiamento è stato finalizzato a non cambiare nulla.

La nota dominante del romanzo è la condizione esistenziale del protagonista, che avverte dentro di sé la scissione col mondo e coglie il senso di effimero (a cui è ridotta ogni grandezza) nella vecchia Palermo (la Splendida), nelle pietre color del miele della Noto barocca, nella stanca vecchiaia delle case di Castelvetrano, nella sfiorente bellezza dei volti di donna, nel misto di religione e superstizione del barone don Isidoro di Ronda, nel vuoto interiore del magistrato Sanginisi, nella disperazione dei pastori dei Nebrodi, nel paesaggio desolato delle zolfare di Lercara, descritto con toni altamente poetici.

Molte pagine del romanzo affrontano i più gravi problemi della Sicilia, con toni polemici, ma con una aggressività meno accentuata rispetto a quella del volto battagliero della ragazza, che in copertina canta l’Internazionale (opera di Renato Guttuso), a significare il rifiuto di accettare di vivere passivamente in una realtà stagnante.

Alla situazione attuale si è arrivati non per destino o per disgrazia, bensì per i meccanismi delle strutture politiche e sociali e per responsabilità storiche, sottolineate dai numerosi e puntuali documenti (disseminati nel testo), dai quali risulta una geografia e una storia culturale della Sicilia, che va dagli Arabi alla seconda guerra mondiale (è citato, tra l’altro, il modo venale con cui Pozzo di Gotto riuscì ad ottenere l’autonomia municipale da Milazzo nel 1639, versando ventimila scudi alla corona di Spagna).

Freni non trascura piccoli episodi come i fuochi a mare per la festa di San Rocco, riportando il sapore struggente delle tradizioni delle nostre contrade.

II linguaggio narrativo utilizza in maniera personale tecniche moderne, quali il monologo interiore o il montaggio cinematografico. Costante è la preferenza per l’uso dell’imperfetto, un tempo non determinato, che risponde all’idea guida dell’opera: il recupero - come operazione della memoria - del territorio delle calde stagioni, dove “sento che tutto ciò di me dovrà ancora avverarsi e finire” e dove il passato non ha tempi distinti, perché tutto appartiene al tempo vissuto, dalla stagione della fanciullezza a Roccareale e di Rosaria, all’ultima e più breve stagione di Federica, che finisce sorretta dalla certezza che non tutto sia perduto del passato: “La pena complicata di Federica mi rinfrancava dal timore che - dove è passato il cuore - non rimanga nulla”.

La terra delle calde stagioni non può morire. “In essa – dice il protagonista - ogni cosa … coesiste … nella sintesi di un gioco che vorrei ripetere cedendo al magico richiamo dei ritorni”, anche se “la Sicilia è sempre stata una casa con il lutto alla porta e chi lo ha capito è stato sempre costretto a fuggire, ad andarsene via per non diventare lui stesso elemento del lutto. E’ proprio vero che per restarci bisogna essere apostoli o cinici: l’apostolato non ha storia in Sicilia, il cinismo è un’edera, fatto anche di indifferenza, di disimpegno, di complici neutralità”, a causa di una società che vive fino in fondo la sua crisi borghese. In essa – secondo il protagonista - “non c’era nulla che gettasse un nuovo spiraglio di luce in un ambiente che continuava a bearsi nella sua spesso allucinante dimensione di agonia”.

Freni giustifica implicitamente anche la sua scelta di vita di lasciare l’isola, che ha condiviso con tanti poeti d’esilio, quando fa dire al protagonista: “Chi è andato via - non sentendosi la forza dell’apostolo, né avendo la crudeltà del cinico - lo ha fatto per una scelta di onestà e non si è rifugiato nell’Eden, ma dove, come uno straniero, può pensare alla sua terra come ad un sogno e di questo sogno soffrire”.

RECENSIONE di Gino Trapani

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