La quarantena
- Amministratore
- 6 apr 2020
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Il deserto abitato. Il popolo rinchiuso nelle case. Le strade immerse nel silenzio. Lo sgomento del vuoto, una tragedia bianca. La città serrata. Nel cielo ora cavo e cinerino, ora limpido e sereno si propagano i rintocchi delle campane della basilica di San Sebastiano con il loro battito lento, che acuisce il senso dell’isolamento, induce alla meditazione sulla propria impotenza. A mezzogiorno il suono delle campane riaccende nei cuori dei fedeli la speranza; il battito è vivace, ma ben lontano dallo scampanio felice e fragoroso del giorno di Pasqua.
Come in tutta Italia, anche noi siciliani siamo stati colti impreparati ad affrontare l’emergenza del contagio, a causa dei tagli alla sanità degli ultimi decenni. Senza rendercene conto ci siamo trovati in quarantena.
Balugina il dubbio che il contagio sia la punizione delle responsabilità collettive, il modo con cui il divino condanna noi mortali - senza nessuna differenza di religione, di razza o di censo. Ma Dio non dà castigo, non è il giudice inflessibile che usa la peste come una scopa. Così può pensare solo chi (come don Abbondio, impaurito cuor di leone ne I promessi sposi) non è in grado di elaborare il dolore cristianamente.
Il tedio casalingo – oltre che con i video e gli smartphon - si può combattere con la musica (ascoltata o eseguita da chi è capace) e con la lettura. In molti libri si parla della peste che stravolge le abitudini della vita quotidiana e i sentimenti più spontanei: dall’ Edipo re di Sofocle, al Decamerone di Boccaccio (è la peste del 1348 a spingere alla fuga in campagna i giovani fiorentini che raccontano le cento novelle), alla Colonna infame, appendice de I promessi sposi di Manzoni (l’elenco sarebbe lungo: scritti di Tucidide, Lucrezio, Jack London, De Amicis, Capuana, Verga, De Roberto, Garcia Marquez, eccetera …). Per occupare il tempo forzatamente libero possiamo riscoprire la casa, ripercorrere il proprio passato rovistando documenti e libri accatastati negli anni, rileggere i classici della letteratura mondiale, o ordinare la biblioteca, sgomberare gli spazi ripieni di materiale non utilizzato, liberare i mobili e gli scaffali dagli oggetti superflui, scegliere la roba che, invece di buttare, si può regalare ai bisognosi…
La cittadinanza chiede a chi governa provvedimenti risolutivi, ma spesso tra la gente trionfa la stupidità e la paura collettiva si trasforma in panico, soprattutto in chi si è abituato a sopravvalutare i diritti individuali e trascurare i doveri sociali.
Ma perché finisca la pandemia occorre che si riesca a colmare tutti i vuoti che la società ha creato, dimenticando il bene comune. Chi può dare protezione dalla sventura, se non ci sono le strutture mediche adeguate e tanti medici e infermieri muoiono da eroi?
Il coronavirus, nemico invasore, è invisibile, ma può essere schivato, senza giungere alla chiusura di tutte le frontiere, né di tutte le fabbriche. Deve avere il sopravvento la condivisione, l’osservanza scrupolosa delle norme restrittive e anche il rispetto verso chi sta peggio di noi. In quasi tutti i periodi della storia negri e meridionali, rom e musulmani, minoranze etniche ed emigranti sono stati messi ai margini o espulsi dalla vita sociale. La quarantena dovrebbe insegnarci che siamo tutti uguali e che dobbiamo impedire che gli emarginati continuino ad essere oggetto della caccia alle streghe da parte degli estremisti che li considerano invasori pericolosi come i coronavirus o gli untori. Costoro – non solo in Italia - si dichiarano difensori della propria patria, ma in realtà sono dissimulati razzisti, blanditi purtroppo da chi strumentalizza la paura per ottenere consenso. La paura bisogna scacciarla e non incentivarla con la ricerca maniacale di un capro espiatorio.
Giovanni Verga nella novella “Quelli del colera” racconta fino a che punto possa arrivare la paura collettiva di quel male invisibile, che infetta l’animo più del corpo, spingendo i cittadini ad una forsennata caccia agli untori, che si conclude con l’incendio e la distruzione di un baraccone di un gruppo di incolpevoli attori girovaghi.
Non tutto il male viene per nuocere, suggerisce il proverbio. C’è da augurarsi che l’esperienza odierna ci serva da lezione per la prossima pandemia e spinga a potenziare in particolare la sanità pubblica. Il coronavirus deve far risvegliare le intelligenze, farci comprendere i disastri precedenti, ravvedere e provvedere a cure e rimedi preventivi. E’ fondamentale uscire dall’angoscia, rimettere in ordine la storia, prospettare il futuro di una vita completamente rinnovata sia a livello individuale, sia a livello internazionale.
Intanto dobbiamo tenere conto del fatto che – finito il picco del contagio – il coronavirus non scomparirà dalla circolazione, come dicono i virologi. Sarà bene pertanto che si mantenga una stretta vigilanza medica e civica almeno fino ad un anno dopo che sarà dichiarata cessata la pestilenza. Infatti è probabile che il coronavirus si mantenga a lungo endemico, pur senza incrudelire a livello collettivo.
Gino Trapani
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