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Filippo Minolfi, ritratto d'artista

Io, Filippo Minolfi lo conoscevo bene, sia come uomo che come artista. L’ho incontrato per la prima volta nel 2008. A Barcellona c’era un caffè letterario, il “Tra le Righe Cafè” di Via Roma, un’esperienza irripetibile che durò appena un anno. Minolfi accettò di organizzare in quello spazio “non canonico” la prima mostra personale nella sua città natale. L’intitolammo “Oltre il Dopo”. Lui che aveva vinto concorsi nazionali di pittura, esposto a Roma, Brescia, Palermo, New York, ha portato i suoi quadri al piano superiore di un bar. Poi, nel 2012, nella chiesa di San Vito, fece una mostra ancora più grande e fu un successo. Io l’ho accompagnato nell’ultimo tratto della sua vita di artista, insieme abbiamo fatto altre tre mostre, una – bellissima- al Palacultura di Messina, una al Castello di Milazzo e l’ultima, nel Novembre del 2019, sempre a Messina. In questi tredici anni di conoscenza siamo diventati amici, nonostante il divario d’età, una vera amicizia. Da lui ho ricevuto molto, sono riuscito a dargli forse solo un po’ di entusiasmo. Filippo Minolfi lo conoscevo bene e posso dire che abbiamo perso tanto. Umanamente era un “signore”, misurato e sincero, umile seppur grande, generoso e perbene; come artista era un fuoriclasse. E’ nato a Barcellona nel 1930, da una famiglia agiata di possidenti terrieri. In quella piccola-grande palestra che fu la Barcellona Pozzo di Gotto di quel tempo, Minolfi imparò a dipingere; i rudimenti dell’arte li apprese da Guttuso e Migneco che in estate venivano a passare il tempo a casa di Nino Leotti. Infatti i primi lavori di Minolfi sono gustosissimi bozzetti realistici improntati sull’osservazione di scene contadine d’Acquaficara o marinare di Calderà. Fece la sua prima comparsa alla Corda Fratres e vendette quasi tutti i lavori. Ho letto da qualche parte che “Minolfi fu un autodidatta”; sarà vero, ma come disegnava lui non sa disegnare nessun artista laureato all’Accademia. Prima o poi tireremo fuori dei disegni a matita o a penne colorate che rasentano la perfezione. A fine anni Cinquanta, Minolfi (nel frattempo divenuto avvocato) si trasferì a Messina, che diverrà la città della sua vita. Qui si sposa e qui trova lavoro presso la Provincia, qui nascono le sue due figlie. Per un po’ abbandona la pittura, poi, verso il 1968/70, ritorna alla grande sulla scena artistica messinese e diventa uno dei migliori. Prima rielabora i ricordi del realismo giovanile adattandolo ad un certo discorso mentale tra il visionario e il paranoico, fatto di colori innaturali e forme spettrali. In questo filone inseriamo la grande pittura ad olio su muro nel catino absidale di San Sebastiano (1984), il Pantocratore (faccia da uomo del passato che vive nel futuro) che accoglie noi tutti alla sua tavola, mentre alle sue spalle il mondo è una landa zigzagata di solchi colorati. Per San Sebastiano dipinse pure i quattro evangelisti nei pennacchi della cupola. Poi, a partire dalla fine degli Anni Ottanta, Minolfi inventa un linguaggio artistico tutto suo, il “surrealismo concettuale” che è la cifra originale della sua pittura, collocandosi così di diritto nel panorama dell’arte italiana del Novecento. La pittura di Minolfi, a prima vista, è sempre la stessa: due elementi, legno acciaio, brandelli di legno e acciaio, si intrecciano e si contorcono sullo sfondo di un mare/cielo azzurro. Eppure, proprio in questo continuo balletto, c’è l’infinita e sempre nuova ripetizione della sua convinzione e cioè che l’esistenza in questo mondo è una continua e tormentata lotta tra l’uomo e la macchina. Ho paragonato Minolfi ad un monaco amanuense che riscrive sempre sullo stesso palinsesto: in apparenza scrive la stessa cosa, in realtà cambia qualcosa, una virgola forse, che fa il discorso ogni volta nuovo. In questo suo stile Minolfi raggiunge la perfetta sintesi tra disegno e colore; qualcuno ha detto di lui che fu “solo” un grande grafico: si sbagliava, Minolfi era un pittore a tutti gli effetti. In lui colore e disegno si fondevano in un’unità indissolubile, non c’erano altri colori- se non azzurro, marrone, grigio/bianco e qualche verde- perché alla sua narrazione questi soli servivano. Altrimenti ci sarebbero stati, e sarebbero stati allo stesso modo perfetti. Filippo Minolfi non dipingeva soltanto; lui pensava l’arte e l’impiegava per dire qualcosa. Era scultore anche. E artista che riceva commissioni pubbliche. Ho visto una sua scultura al cimitero di Messina dedicata ad un chitarrista. Minolfi non conosce retorica, è un artista cattafiano, per questo del “morto” lui ricorda solo le mani che suonano e creano musica. Ecco la scultura, due mani di bronzo che creano musica. Non è stato un artista fortunato, Filippo Minolfi. Aveva realizzato un monumento a Cattafi davanti alla Basilica di San Sebastiano; un monumento che non era un mausoleo ma un’opera d’arte complessa e conchiusa in se stessa. E’ stato distrutto, è stata cancellata un’opera d’arte. Aveva vinto un concorso indetto dal comune di Messina per un monumento al Vigile del Fuoco; altri avrebbero ceduto alla retorica dell’eroe, lui ha identificato la fiamma alla scala, cioè il nemico al combattente, poiché senza il primo non potrebbe esserci il secondo. Una spirale che si abbraccia e sale verso l’alto, in eterno. Anche questa opera d’arte (il bozzetto in questo caso) giace in qualche dimenticatoio in attesa di ritornare alla luce. Io, Filippo Minolfi lo conoscevo bene, era mio amico: l’ha ucciso il Covid il 29 Gennaio 2021. Ma questo è ininfluente, Filippo Minolfi è un grande artista.

Andrea Italiano

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